La caduta degli dei, ovvero del perché squadre costruite per eccellere falliscono


di Alistair Castagnoli, consulting coach
 con un contributo di Edi Daniele Moroso

A VOI IL COMANDO

Se domani mattina il presidente di una società sportiva (o non sportiva) vi affidasse l’incarico di formare una squadra (o gruppo di lavoro) per vincere un campionato (o per lanciare un nuovo prodotto) quale sarebbe la vostra prima mossa?
Che tipi di giocatori (professionisti nel loro settore) mettereste sotto contratto.
Probabilmente il 95% di noi (mi includo in questo esperimento) risponderebbe che la sua prima azione sarebbe quella di ingaggiare i migliori giocatori disponibili e affidarli al miglior coach che ci sia sulla piazza.
Per valutare i giocatori e l’allenatore daremmo tutti un’occhiata al palmares, alle statistiche e ai risultati raggiunti nelle stagioni precedenti (sicuri che questi siano indicatori universali di quanto siano persone vincenti), al fine di dare forma alla vision che nella nostra testa disegna la miglior squadra di sempre.
Tutto questo è teoricamente giusto ed è una strada che ad alcuni livelli (per esempio quando si costruiscono squadre con giocatori che provengono da una o due serie superiori e li si fanno giocare in serie più basse col solo scopo di conquistare rapidamente le promozioni alle serie superiori) dà anche dei risultati.
Quindi come mai ad ogni livello ci si imbatte sempre più spesso in squadre piene di talento e costruite per dominare, che ad un certo punto, quando le partite diventano delicate, crollano e falliscono miseramente sciogliendosi come neve al sole?

PIU’ TALENTO = PIU’ VITTORIE?

L’errore alla base del ragionamento che noi novelli general manager faremmo è la credenza popolare secondo cui più talento possiede una squadra maggiori risultati raggiungerà (Swaab et Coll., 2014). Convinti che la relazione tra la performance di squadra ed il talento dei giocatori sia lineare (Swaab et Coll., 2014) spenderemmo tutto lo spendibile per accaparrarci i giocatori più talentuosi solo per poi ritrovarci a perdere partite con squadre che sulla carta possiedono un quarto del talento della nostra! Come è possibile tutto ciò?.
Una serie di ricerche in cui Swaab e colleghi (Swaab et Coll., 2014) hanno messo a confronto il talento dei giocatori e i risultati raggiunti da squadre di calcio (qualificazioni alla World Cup del 2010 e del 2014), di basket (30 squadre NBA, stagioni dal 2002 al 2012) e di baseball (30 squadre MLB, stagioni dal 2002 al 2012), hanno dimostrato che aumentando il numero dei giocatori di talento oltre un certo numero non solo i risultati di squadra non migliorano più ma tendono a peggiorare.
Detto in modo semplice se in una squadra io faccio giocare due, tre stelle che riescono a collaborare ottengo risultati eccellenti, ma se aumento il numero delle stelle e così aumento il livello di talento della squadra, i risultati della squadra peggiorano.
Ciò che in campo prima riusciva non riesce più. Le abilità tecniche che definivano la performance dei giocatori improvvisamente svaniscono e la squadra non sa più giocare assieme. 

PERCHE’ QUESTO ACCADE?

Quale maledizione è stata lanciata sulla nostra squadra?
Ovviamente nessuna.
La diminuzione dei risultati delle squadre con molto talento accade per un motivo molto semplice che tendiamo tutti a sottovalutare: negli sport di squadra dove è richiesta una collaborazione sia tra giocatori sia tra reparti (come nel calcio e nel basket – dato confermato dal fatto che nel baseball la “presenza di campioni non ha lo stesso effetto negativo” in quanto “richiede assai meno interdipendenza tra i giocatori” [May,2015]) ciò che conta di più è il gioco di squadra!
Che banalità abbiamo appena affermato.
Vero, ma il punto è che per ottenere un gioco di squadra in cui ognuno contribuisca alla vittoria, non si possono avere troppi giocatori di talento che pongano l’inseguimento della gloria individuale (e quindi dei loro record personali e dei conseguenti maggiori ingaggi) davanti ai bisogni della squadra di cui fanno parte. Affinché lo sport di squadra crei gioco di squadra serve impegno e volontà di collaborare tra i giocatori.
Le ricerche di Swaab e coll. (Swaab et Coll., 2014) suggeriscono che “la percentuale di campioni in una squadra influenza il coordinamento all’interno della squadra stessa” perché “livelli troppo alti di persone di grande talento sono dannosi nei campi che richiedono sforzi strategici e ben coordinati” (May, 2015).
Ciò significa che dobbiamo rinunciare alla possibilità di creare super squadre costituite interamente da giocatori di talento?

PRIME INDICAZIONI

Fortunatamente no!
Primo: noi coach dobbiamo offrire ai giocatori un sistema di gioco che abbia dei principi di gioco chiari e in cui ognuno senta che la sua performance individuale è di alto livello.
Come detto “la gente soddisfatta di sé produce buoni risultati” (Blanchard & Johnson, 1983): se un giocatore è pago del modo in cui gioca difficilmente saboterà se stesso boicottando uno stile di gioco che ne sta esaltando le caratteristiche individuali.
Al contrario, un giocatore scontento di come si sente in campo (ricordiamoci che i giocatori provano continue emozioni quando giocano, emozioni che gli suggeriscono come sentirsi a seconda delle decisioni che prendono. Si veda sull'argomento http://theconsultingcoach.blogspot.com/2015/05/nf.html) si concentrerà su di sé, comincerà a giocare per sé, per le sue statistiche personali, per il suo futuro. Assisteremo a quelle partite grottesche in cui ad un grande impegno non corrisponde mai la giocata più efficace (le decisioni prese danneggiano il gioco di squadra) e in cui sembra che niente funzioni più (l’armonia neurale e sociale che guidava la squadra si è interrotta).
Secondo: affinché giocatori con grande talento riescano a collaborare e a far eccellere la squadra, è necessario che possiedano un’arma in più: il Qi di gruppo (Goleman, 2012).

L’INTELLIGENZA DEL GRUPPO

“Ogni volta che più persone si riuniscono per collaborare, si può parlare in senso non metaforico di un Qi di gruppo, inteso come la sommatoria dei talenti e delle capacità di tutte le parti coinvolte.” (Goleman, 2012). Questa intelligenza operativa della squadra non corrisponde alla somma dei talenti individuali dei giocatori, ma viene quantificata in termini di intelligenza emotiva (Goleman, 2012).
Sternberg e Williams hanno dimostrato che “a parità di fattori, è la capacità di armonizzare gli apporti dei diversi membri a distinguere una squadra più talentuosa, produttiva ed efficace.” (Goleman, 2012). Ciò avviene grazie “alla capacità dei membri di raggiungere uno stato di armonia interna tale da consentire a ciascuno di valorizzare appieno il talento degli altri.” (Goleman, 2012).
Grazie al Qi di gruppo, per venire a capo dei problemi che quotidianamente nascono all’interno di una squadra che è obbligata a vincere ed è quindi sottoposta a forte stress (ricordo che lo stress rende stupidi in quanto il livello di ormoni prodotti dalla nostra percezione delle sfide – parleremo in futuro del fatto che considerare tutto come una sfida non solo non è sano per la nostra salute, ma ci impedisce di raggiungere gli obiettivi che ci diamo – inibisce la aree cerebrali deputate all’apprendimento e alla capacità di prendere decisioni) un particolare membro della squadra spesso inconsapevolmente crea una rete di rapporti da cui estrapola strategie interne ed interpersonali di cui si serve per venire a capo dei problemi e trovare soluzioni nei momenti di crisi (Goleman, 2012).
Il capitano? il coach? No.

QUESTIONE DI LEADER

Il leader di una squadra non sempre corrisponde al capitano. Il vero leader è colui che ha più influenza sul modo di lavorare del gruppo stesso: il cosiddetto “leader informale” (Goleman, 2013).
Cosa possiedono queste persone che altri non possiedono?
Oltre alle abilità tecniche (ricordo che stiamo sempre parlando di giocatori di talento) il leader informale possiede una elevata consapevolezza di sé e del contributo che ognuno può dare all’interno della squadra. Le sue spiccate abilità sociali (sull'argomento si veda http://theconsultingcoach.blogspot.com/2015/09/b4.html) gli permettono di coordinare efficacemente gli sforzi dei compagni e di persuaderli a collaborare senza che si creino conflitti interni (Goleman, 2013).
E’ interessante notare che, affinché la squadra esprima una performance elevata, il leader informale crea un equilibrio tra la sua concentrazione sul raggiungimento dell’obiettivo di squadra e la sua concentrazione sulla percezione delle reazioni dei compagni durante gli allenamenti e le partite. Questa è un’abilità che non tutti possiedono.
Richard Boyatzis ha dimostrato che “la rete neurale che si attiva quando ci concentriamo su un obiettivo è diversa dai circuiti che entrano in gioco quando si tratta di analizzare la società nel suo complesso. Le due reti si inibiscono a vicenda. I leader di maggior successo passano dall’una all’altra e viceversa nel giro di qualche secondo.” (Goleman, 2013).
Quindi, se domani mattina dovete iniziare a fare un elenco di giocatori da mettere sotto contratto, questi giocatori/leader sono i primi che un general manager saggio dovrebbe contattare.
La loro motivazione “ad aiutare anche gli altri a raggiungere il successo” (Goleman, 2013), unita alla loro apertura emotiva – la capacità di percepire i segnali emotivi di compagni – e alla loro “attenzione ambientale” – la capacità di non dipendere ciecamente dagli assunti indiscussi e dalle regole pratiche – sono componenti fondamentali per ottenere maggiori risultati e costruire una squadra vincente (Goleman, 2013).

IL LEADER CHE ALLENA

Anche la scelta del coach deve soddisfare queste abilità sociali tipiche dell’intelligenza emotiva.
I coach dotati sia di elevate competenze tecniche che di competenze sociali – “l’insieme delle abilità che consentono alle persone di lavorare di concerto” (Goleman, 2012) – si trasformano in leader capaci di guidare le squadre fuori dalla crisi e verso risultati infinitamente maggiori di quelli ottenibili da una tradizionale gestione tecnica – come ben sanno tutte quelle aziende che si sono ritrovate in crisi di stallo dopo aver assunto i dipendenti basandosi sulle sole competenze tecniche (Goleman, 2013). 

TU+ME=DISASTRO?

Una cosa che i giocatori devono aver ben chiara quando giocano insieme ad altri è che il loro talento non basterà a farli emergere quando si trovano in mezzo a compagni che hanno più o meno la loro stessa abilità tecnica. “Quando tutti i membri di un gruppo possiedono lo stesso alto livello di quoziente intellettivo (nel caso dello sport, lo stesso livello di abilità tecniche, ndr.) subentra un effetto di appiattimento.” (Goleman, 2013) che spiega – in parte – come mai queste super squadre oltre a fallire nel risultato falliscono anche nella qualità del gioco. Per ovviare a questo e aumentare il livello di performance della squadra i giocatori dovrebbero aspirare quindi anche al miglioramento delle loro abilità sociali/emotive.

ESEMPI PRATICI: PERCHE' LE SQUADRE FALLISCONO

Oltre tutto ciò di cui abbiamo parlato fin’ora - ed escludendo che il motivo del mancato successo della "nostra" squadra strabordante di talento siano motivazioni tecnico/tattiche e fisiche - , consideriamo ora una serie di situazioni pratiche che, se non danneggiano il giocatore, nemmeno lo aiutano a esprimere al meglio la sua performance.

In quanto tempo le squadre diventano squadre?
Se alle prime difficoltà incontrate dalla squadra si percepiscono la malsana tendenza alla deresponsabilizzazione da parte dei giocatori (“La colpa del fallimento è degli arbitri, della giornata storta, del mio vicino di casa.” “Se tizio mi passa male la palla, io cosa posso farci?”), dei coach (“Tizio non capisce niente!” “ Tizio pensa di saperne più di me!”) e la mancanza di collaborazione tra i giocatori e lo staff (“Se ci fa giocare così è ovvio che perdiamo.” “Se giocano così ci faranno perdere.”), possiamo raccontarcela e cercare mille aggiustamenti in corso d’opera (punizioni, multe, cambiare uno o due giocatori, cambiare allenatore), ma se abbiamo sbagliato a selezionare i giocatori e lo staff (perché mancano dell’intelligenza emotiva necessaria al lavoro insieme) il gruppo non diventerà mai una squadra orientata verso un solo obiettivo. Il gruppo infatti inizia la trasformazione in squadra già dal primo allenamento ed in modo spontaneo. L’innesco sono le abilità sociali di giocatori e staff. Se il gruppo non lavora insieme come una squadra è meglio ricorrere a misure drastiche e cambiare i giocatori e gli allenatori, modificando i criteri di selezione usati (per fare questo un bravo general manager deve ammettere di aver sbagliato. Possediamo il coraggio e le competenze per farlo?) al fine di non ripetere gli stessi errori. Senza accusare nessuno o puntare il dito: semplicemente sono state scelte delle persone che non avevano le competenze sociali ed emotive per lavorare insieme.

Fuga dalla realtà
La nostra realtà è fatta dalle cose su cui poniamo la nostra attenzione.
Il cervello è abituato a cercare automaticamente conferme alle nostre idee in modo che quel maledetto ego che abbiamo dentro noi si senta appagato e più sicuro di sé.
Quindi, se con la nostra narrazione ci costruiamo una realtà fallimentare in cui noi siamo una vittima degli eventi (“Se il coach continua con queste scelte ci farà perdere.” “Se tizio continua a tirare così tanto ci farà perdere.”), la realtà che vivremo sarà la nostra confortevole realtà fallimentare, ma rassicurante e familiare proprio perché costruita da noi.
Ciò che abbiamo così ottenuto è la fuga da una realtà in cui avremmo potuto essere vincenti. Una realtà che all’inizio del processo di analisi era possibile tanto quanto quella fallimentare! 
Per questo se si vuole mantenere una certa sanità mentale – oltre che giocare in modo appagante – è saggio abituarci a mantenere la nostra attenzione sulle cose positive che funzionano ("Ho fatto canestro.") piuttosto che su quelle negative ("Non valgo niente, ho sbagliato ancora!" “Tizio ce l’ha con me.”).
Il cervello vuole la sua dose di dopamina e se noi pensiamo che la squadra in cui giochiamo non possa vincere e facciamo anche un bell'elenco dei motivi per cui perderà (alzi la mano chi non l’ha mai fatto!), quando giocheremo il cervello sarà così impegnato a cercare conferme e a spuntare la nostra lista, che non avrà risorse per farci giocare per vincere!
Volenti o nolenti il cervello è fatto per costruire abitudini anche quando ci alleniamo e giochiamo e per confermare le nostre credenze.
Sarebbe saggio da parte nostra allenare abitudini positive ed efficaci in modo consapevole, piuttosto che affidarci all’inconsapevole sistema automatico che ci porta verso il baratro dell’ “Io l’avevo detto che avremmo perso!”.
Lo ripeto, la nostra realtà dipende da dove poniamo la nostra attenzione: se spendiamo tempo a elencare i problemi dove troviamo tempo per le soluzioni?

Quando è in campo il giocatore deve giocare
Durante una partita se il gioco stagna e le cose non vano come programmato dallo staff ecco che si ricorre al piano B. 
Ma il giocatore non può andare in campo con il foglio di istruzioni su ciò che deve fare.
Lui è li per giocare. E lo deve fare in modo automatico.
Il suo cervello deve riconoscere le situazioni apprese ad allenamento e reagire in modo naturale e automatico ad esse: le sue reazioni sono il suo gioco. E sono abitudini acquisite ad allenamento, non cose dette dagli allenatori pochi attimi prima di giocare, durante un time-out o peggio sue idee partorite mentre sta seduto in panchina.

Il giocatore esclama: ci penso io!
Come detto spesso i giocatori si lasciano prendere dalla smania di risolvere i problemi che impediscono alla squadra di giocare in modo competitivo e, sebbene le intenzioni siano buone, se mancano le competenze i guai possono solo aumentare.
La questione qui è semplice: cari giocatori se c'è una cosa in cui ognuno è davvero negato è quella di trovare soluzioni per se stesso!
Siamo proprio incapaci e il risultato è quello di mantenere le condizioni che alimentano le situazioni problematiche in cui siamo finiti e da cui crediamo di voler uscire.
Da qui la necessità (e non se la prenda Ligabue di cui apprezzo "Questa è la mia vita") di ascoltare gli altri.
Raccogliere informazioni a proposito di una situazione, ascoltare in modo aperto ma critico i pareri di chi ha maggiori competenze di noi, ci mette sulla buona strada per uscire dal circolo vizioso in cui siamo piombati.
Instaurare un clima di fiducia, scegliere una guida, un maestro che "ti faccia fare ciò che non vuoi fare per diventare la persona che vuoi essere" (fonte della citazione non conosciuta) è quindi un prerequisito al nostro benessere personale da cui dipende la nostra performance sportiva.

Allenarsi in spogliatoio
Organizzare delle riunioni in cui condividere con i compagni di squadra dubbi e soluzioni riguardo al modo in cui  la squadra lavora aiuta a creare una coscienza di squadra che indichi la rotta da seguire quando ci si smarrisce.
Tuttavia farlo è molto difficile. Nessuno crede nella fiducia e nessuno si fida più degli altri. Soprattutto nessuno ha il coraggio di parlare apertamente e dire davvero ciò che pensa per paura di generare attriti e piccole vendette da parte di altri compagni di squadra. A queste riunioni di solito si parla in modo politico e corretto, senza prendere posizione e rimanendo tutti superficialmente ‘amici’. Infatti quando le riunioni finiscono ci si sente esattamente come prima.
Se qualcuno volesse sperimentare quel senso di appartenenza a qualcosa di più grande del proprio orticello ecco cosa suggeriscono diversi studiosi per costruire fiducia nelle squadre:
- stabilire obiettivi chiari
- essere aperti
- essere corretti
- essere disponibili ad ascoltare gli altri compagni di squadra
- essere determinati
- aver a cuore il benessere degli altri compagni di squadra
- assumersi la responsabilità delle azioni della squadra
- riconoscere i meriti dei compagni di squadra
- essere comprensivi verso gli stati d’animo dei compagni di squadra
- rispettare le opinioni dei compagni di squadra
- spingere i compagni di squadra ad agire insieme.
(Hall, 2007)

E il coach pensa: io mi incazzo così ristabilisco l’ordine e faccio vedere chi comanda
I leader aziendali capaci di creare climi stimolanti dove le performance diventano eccellenti sono – secondo uno studio condotto da Yvonne Sell, direttrice dell’Hay Group per la coltivazione della leadership e del talento nel Regno Unito – solo il 18 per cento. Quasi i tre quarti dei leader contribuiscono invece a creare degli scenari negativi in cui le persone si sentono demotivate o indifferenti al progetto aziendale. (Goleman, 2013)
Chi pensa che tra noi allenatori le cose vadano meglio ha poca esperienza in campo sportivo.
Non me ne vogliano i miei colleghi allenatori sportivi, ma il modello di allenamenti più frequente a cui ho avuto la fortuna di assistere in questi ultimi 14 anni è di questo tipo: il giocatore arriva e il linguaggio del corpo suggerisce che non ha voglia di allenarsi. L'allenatore privo di competenze sociali se ne accorge solo dopo il primo esercizio svolto dalla squadra e per risolvere il problema ha la brillante idea di urlare inibendo così le aree cerebrali dell’apprendimento di tutti i giocatori. La reazione emotiva spesso genera comunque una risposta fisica e il giocatore per qualche minuto usa la rabbia che prova per essere stato sgridato davanti a tutti e si allena con intensità.
Problema risolto?
Direi di no. Se l’intervento innescasse una trasformazione nel giocatore, la frequenza degli episodi diminuirebbe fino a scomparire.
Questi tipi di allenatori ricorrono “spesso a una gamma molto ristretta di stili di leadership (in genere lo stile del battistrada e del ‘comanda e controlla’). Gli stili di leadership mettono in luce le sottostanti competenze a livello di intelligenza emotiva; dagli stili adottati dipende il clima che si genera nell’organizzazione, e quest’ultimo – stando ai dati analizzati dall’Hay Group – incide per circa il 30 per cento sulle performance aziendali.” (Goleman, 2013)

L'influenza del non tangibile
Significa che il modo in cui l’allenatore tratta i giocatori è responsabile del clima sul posto di lavoro (allenamenti e partite)  e quel clima influenza per il 30 per cento la performance della squadra! Un terzo di ciò che fa la squadra in campo dipende dal comportamento dell’allenatore!
Soluzioni alternative esistono? Sì. L’allenatore con competenze sociali/emotive avrebbe:
1) notato subito il messaggio che linguaggio del corpo del giocatore voleva comunicare.
2) Avrebbe parlato con il giocatore qualche minuto per comprende insieme il motivo di quello stato d’animo (vi ricordo che il movimento è un modo per esprimere lo stato d’animo che proviamo).
Ciò avrebbe creato i presupposti affinché con il tempo il giocatore avesse modificato il suo stato d’animo e con esso anche il suo livello di motivazione.

Chi può aiutare la squadra a diventare squadra? 
Il motivatore sportivo, una figura importante che il collega Edi Moroso ci illustra nel suo contributo.

IL MOTIVATORE: FACILITATORE DEL GRUPPO E SUA COSCIENZA CRITICA di Edi Daniele Moroso
Troppo speso troviamo nelle nostre realtà sportive, giovanili e non, delle situazioni di rapporto e di rapporti davvero critici per non dire scabrosi.
Società in disaccordo con gli atleti, atleti che lasciano l'attività a stagione in corso, resoconti tecnici e morali di fine stagione alquanto imbarazzanti per non dire squallidi.
Tutto questo dissenso e disaccordo crea disarmonia ed incomprensione, spesso dovute ad una cattiva gestione delle risorse umane (non c'è efficace comunicazione e viene a crearsi il muro contro muro). Risorse che interagiscono male, in modo non efficace e corretto con la componente tecnica e con lo sponsor. Sarebbe opportuno creare quel soggetto, quella figura professionale che definirei come il "motivatore", soggetto professionale ed autorevole avente il compito di facilitare i rapporti umani senza porsi a mera figura compiacente asservita alle direttive societarie.
Ad inizio stagione sarebbe opportuno, in accordo con dirigenza ed organi tecnici, creare il c.d. "patto sportivo", una sorta di codice etico-morale di condivisione dei piani di lavoro, dei comportamenti e delle assunzioni di responsabilità propedeutico alla creazione di una coscienza critica e positiva del gruppo, non passiva.
L'ubbidienza cieca ed assoluta porta al rifiuto ed alla ribellione, non alla costruzione (la costruzione è un percorso creato e condiviso assieme).
Sarebbe opportuno abituare i ragazzi all'idea che l'educazione e la propensione al sacrificio negli allenamenti sono condizioni indispensabili per cogliere gli obiettivi; ogni allenamento costituisce una prova tecnico-fisica considerevole mentre la prestazione agonistica quasi sempre rispecchia la qualità del lavoro svolto settimanalmente.
Il motivatore avrebbe pertanto compiti non facili da assolvere, ma di questi tempi indispensabili: creare un patto sportivo di inizio stagione, esercitare critica costruttiva, effettuare un' analisi dei casi difficili, risolvere problemi latenti ed irrisolti (che andrebbero risolti poiché bombe ad orologeria pronte a scoppiare in ogni momento); il tutto porterebbe ad evitare scarichi di responsabilità, linciaggi morali ad agnelli da sacrificare.
Buon cammino da Edi Daniele Moroso

GUIDARE VERSO LA PARTENZA

E così termina il nostro viaggio. Siamo partiti dalle squadre che falliscono nonostante il grande talento posseduto dai giocatori. E forse abbiamo compreso che le sole abilità tecniche non garantiscono il successo di una squadra. Ricordiamocelo quando in futuro inizieremo a valutare come formare le nostre squadre, sportive e non sportive. A qualsiasi livello le dinamiche sono le stesse.  
A questo proposito proprio in questi giorni sto vedendo le finali di Conference NBA. La differenza che si percepisce quando gioca Golden State rispetto alle altre 3 squadre (Huston, Cleveland, Atlanta) è abissale: Golden State è una squadra i cui giocatori oltre ad elevate competenze tecniche possiedono ancor più elevate competenze emotivo/sociali, come testimoniano il numero di assist sul totale dei canestri realizzati, le numerose palle perse (sì, anche le palle perse!) e il linguaggio non verbale di giocatori e staff. Più di tutto, quando giocano senza pensare, sono contagiosi! Raggiungeranno l’obiettivo di vincere il titolo? Hanno le carte in regola per farlo. E soprattutto hanno tra di loro dei grandi leader. “I grandi leader ci stimolano. Accendono la nostra passione e forniscono modelli di comportamento alla parte migliore di noi.” (Goleman, 2011)

Questo articolo è stato pubblicato sul precedente blog http://parliamodibaskete.blogspot.it
Prima pubblicazione online: 24 maggio 2015

Chi è Edi Daniele Moroso
Formatore ai corsi superiori della formazione e scoutistica del C.N.G.E.I. Formatore distrettuale Lions. Istruttore di karaté 2° Dan. Ha collaborato alla stesura di libri a carattere educativo e articoli di didattica formativa.
Cura per la rivista Nuova Atletica la rubrica “Il Mulo Parlate – essere educatori sportivi oggi”

Chi è Alistair Castagnoli  
Consulting e basketball coach, dottore in Scienze Motorie, redattore della rivista Nuova Atletica, blogger su Processi Decisionali e Intelligenza Emotiva nello sport. http://theconsultingcoach.blogspot.it/

FONTI

Biecher F. - Gli Obiettivi - Nuova Atletica, 2014, N. 247/248

Goleman D. – Intelligenza Emotiva – Bur, 2011

Goleman D. – Leadership Emotiva – Rizzoli, 2012

Hall A. – SPORT PSYCHOLOGY: BUILDING GROUP COHESION, PERFORMANCE, AND TRUST IN ATHLETIC TEAMS – PSY 8840 – Sports Psychology, Capella University 2007

May C. – Il troppo (talento) che stroppia – Mente & Cervello, 2015, N.123

Oliveira B., Resende N., Amieiro N., Barreto R. – Questione di Metodo – Tropea, 2009

Swaab R.I., Schaerer M., Anicich E.M., Ronay R., Galinsky A.D. – The Too-Much-Talent Effect: Team Interdependence Determines When More Talent Is Too Much or Not Enough – Psychological Science, 2014, Vol. 25(8) 1581–1591

Thompson J. – Positive Coaching – Balance Sports Publishing, 1995

1 commento:

  1. Bellissimo blog! Utile per sportivi, semplici appassionati, educatori, genitori....

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